CENTRO STUDI LA
CORCERA
PER LA
CONSERVAZIONE E LO STUDIO DEL PATRIMONIO CULTURALE TRADIZIONALE NELLA REGIONE
DELL’ALTO CUSIO Sito curato
da Massimo M. Bonini per contatti |
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LA LEGGENDA
DELLA
MERLA
Si narra che
un tempo i merli fossero bianchi come la neve, ma un brutto anno Gennaio, che era
allora il mese più corto, si fece prestare tre giorni da Febbraio e imperversò
con tali bufere e gelate da costringere una merla a cercar rifugio dentro un
comignolo per non morire congelata.
Si salvò, ma
da allora il suo piumaggio, divenuto nero di fumo e caliggine, si trasmise a
tutti i suoi discendenti.
In questi giorni l'inverno giunge al culmine e comincia a declinare verso la nuova primavera. Un tempo i giovani usavano girare di casa in casa motteggiando i residenti e concludendo i loro scherzi con la tiritera: "Ä l'è mortä!.. L'è mortä!.. Fô Sgiänèr, dent Fäurèr, vivä lä mèrlä!.." (E' morta, è morta!.. Fuori gennaio, dentro febbraio, viva la merla!..)
LA CAPPELLA
DELLA TURIGIA
Correva
l'anno 1630 o 1631 e la peste, quella resa tristemente famosa dal Manzoni,
imperversava per tutto il ducato di Milano ed era giunta fino ai confini
dell'Ossola, mietendo vittime a Gravellona.
Casale ne era
ancora immune, ma gli abitanti, temendo il propagarsi del terribile morbo,
cercarono di correre ai ripari con l'aiuto della Divina Provvidenza: fatta
benedire una pagnotta, la portarono in solenne processione fino al roccione che
dominava, e domina tutt'ora, l'antica strada di collegamento tra i due paesi,
lasciandovela infissa su di una pertica; poi si ritirarono tutti nelle loro
case e attesero in preghiera.
Alcuni giorni
dopo il contagio cominciò a scemare e non vi furono più ammalati gravi in
Gravellona; nessun casalese era stato colpito, ma la pagnotta benedetta fu
trovata completamente annerita nella metà rivolta verso il paese vicino e
ancora bianca dalla parte di Casale.
Nel luogo del
miracolo, la Turigiä nella toponomastica locale, dimora del leggendario aspär, il serpente alato, venne eretta
una cappelletta votiva.
L'attuale
cappelletta, con gli affreschi rappresentanti la Madonna di Re, S. Eustacchio e
S. Gottardo, è stata ricostruita, probabilmente, alla fine del secolo scorso.
IL
CROCEFISSO DI RAMATE
Si dice che
casa Battaini, precedentemente Beltrami, quella che sul fianco esterno reca il
pregevole affresco raffigurante S. Anna con la Madonna bambina, in passato
fosse adibita a monastero dei Cappuccini, o comunque a luogo di preghiera. Il
crocifisso del XVII secolo, in legno di fico, che da molti anni impreziosisce
la chiesa parrocchiale ed è particolarmente caro ai ramatesi, fu trovato nel
solaio di questo edificio.
Dicerie
fantasiose circolano intorno alla figura di uno dei suoi antichi proprietari:
pare che costui producesse abusivamente liquori e, scoperto, venne arrestato. In
quel periodo transitava per il Gabbio un battaglione sabaudo diretto a Baveno e
la moglie, disperata, lo intercettò per chiedere la grazia per il marito ad un
alto personaggio della corte reale al seguito dei militari: la grazia che fu
concessa.
Si racconta
inoltre che il medesimo personaggio, ricco e severo possidente terriero, munito
di cannocchiale, dal terrazzo di casa controllasse i suoi lavoranti nei campi.
La piana di Ramate era una vasta area agricola e di certo si trattava di
appezzamenti molto fertili: basti pensare che molti abitanti di Montebuglio
erano proprietari di questi terreni e li avevano adibiti a colture che in alto
davano poca resa, soprattutto canapa, poi macerata negli appossiti pozzi (puzz däl canau) presso la Strona, e
segale (biavä) che i ramatesi
portavano al mulino di Casale per la macina.
Gli stessi
montebugliesi erano pure proprietari di varie cascine che, durante la
costruzione della ferrovia e dello stabilimento Furter, sorto sui resti di
un'antica cartiera (i Miglino scesero da Valduggia per il lavoro di cartai ed
andarono ad abitare in quella che era stata la scuderia dei signori Beltrami),
furono trasformate in case d'abitazione.
Tornando allo
storico crocefisso, vogliamo riportare in merito un brano dell'articolo
Bricicche di folcklore, pubblicato da R.N. Cesare sul Bollettino Storico della
Provincia di Novara (n. 3, 1933) che ci pare particolarmente significativo nel
ricordare come "il Crocefisso, intagliato in legno da artista ignoto,
raccoglie da quasi due secoli la venerazione della popolazione che lo esponeva
sull'altar maggiore nel giorno della sua festa (3 Maggio) e, in caso di
particolari calamità, lo trasportava (in processione, n.d.r.) alla chiesa parrocchiale di Casale" (nota
storica da un'immaginetta del ?1922).
"A invocare la pioggia nella
persistente siccità, si porta fuori il Crocefisso di Ramate, vecchio di almeno
tre secoli, di ignoto artefice, che si regge orizzontalmente, come se si
reggesse un feretro, forse perchè essendo assai alto, per la strada in pendio
che da Ramate conduce al centro, urterebbe negli alberi e nelle siepi."
"L'oscuro artista che lo concepì e lo
lavorò doveva avere un'inconscia anima meditativa e un chiuso ardore mistico.
La figura è impressionante, senza avere nulla di quel verismo atroce che è in
certi crocefissi di campagna: il Cristo che piega il viso tra le lunghe chiome,
ha nell'atteggiamento la coscienza di un destino ineluttabile, d'un sacrificio
senza paragone a cui le forze piegano. Vederselo davanti, ritto nel breve
spazio tra un altare e la balaustra, da un senso di abisso, come se ogni
aspetto e ogni ragione di vita fossero per disparire; le donne più semplici lo
guardano, pregando, con smarrimento."
"Quei di Ramate ne sono gelosi e vedono
malvolontieri che lo si trasporti in parrocchia, sia pur per breve tempo."
"Esposto sotto l'atrio della loro
chiesetta, dicono, non tarda ad ascoltare le suppliche: nubi gonfie salgono
dalle gole dell'Ossola, nubi grigie velano lo Zeda; il Montorfano si mette il
cappello, Toce e Strona scompaiono nella nebbia che riempie la valle e
l'uragano si sferra."...
I CONTI DI CERRO
Il borgo di Cerro,
centro fortificato di antica origine, sorgeva ai piedi del Cerano e sulle rive
del lago Maggiore, che allora spingeva sin li le sue paludi, nel luogo ove ora
si trova il cimitero di Gravellona Toce (canton Wu).
I Conti di
Cerro, signori del borgo omonimo, erano dei buoni nobili, cristiani e
sostenitori della fede. La loro dinastia giunse al massimo splendore negli anni
delle crudeli lotte tra Guelfi e Ghibellini, gli uni partigiani del Papa, gli
altri accesi sostenitori dell'imperatore tedesco, il cui dominio si estendeva
su buona parte dell'Italia. Era difficile tenersi fuori da quelle guerre e i
nostri conti si fecero paladini della causa pontificia.
Un triste
giorno i Ghibellini di Novara ebbero il sopravvento sui loro avversari e
vollero sbaragliarli completamente, eliminandone tutti gli alleati. Fu così che
una notte il borgo di Cerro venne assalito di sorpresa. La resistenza fu lunga
e valorosa, ma nulla potè contro il numero soverchiante degli avversari: il
paese fu incendiato e raso al suolo, la popolazione decimata, ma i conti
riuscirono a fuggire attraverso un passaggio segreto che portava fuori dalle
mura e sino al fortilizio appositamente edificato su un poggio del monte
sovrastante, Piänä Cäšlëtt, il
ripiano del castelletto. Ad essi si unirono altri superstiti, si portarono nel
luogo ove ora sorge Casale e qui si stabilirono, in alcuni alpeggi di loro
proprietà, i casali della corte di Cerro, da cui il nome del nuovo
insediamento.
Del vecchio
borgo non rimasero che la chiesetta di San Maurizio e un torrione sbrecciato e
semidiroccato, all'interno crebbe col tempo un rigoglioso albero di cerro: lo
stesso torrione e la stessa quercia che ancora campeggiano sul gonfalone del
comune.
Questa è la leggenda che si tramandata, riferita ai tragici avvenimenti
del 1312-1314; a tratti risulta ben diversa dalla realtà storica, così come si
è potuto ricostruirla a tanti secoli di distanza.
Nessun
documento cita i conti di Cerro; si può invece affermare con buona certezza che
il borgo fortificato, posto in un'importante posizione strategica, lungo la via
Francisca che collegava Novara e la pianura, attraverso il Cusio, con l'Ossola
e il nord Europa, facesse parte del feudo dei Nobili, conti di Crusinallo,
probabilmente ramo collaterale della famiglia Del Castello - o Da Castello -
signori di Pallanza. Tale dominio ebbe due brevi interruzioni: la prima nell'XI
secolo quando, a seguito di complicati sovvertimenti, il dominio venne
assegnato per tre quarti alla badia (abbazia) di Arona e per il resto al
vescovo-conte di Novara, l'altra pochi decenni più tardi quando fu conquistato
dal comune di Novara, durante la guerra combattuta da quella città contro
Pallanza e l'Ossola inferiore
Nel corso
delle lotte tra Papa e Imperatori, Novara, come daltronde le maggiori città
dell'Italia centro settentrionale, si divise in due fazioni: i Guelfi,
capeggiati dai Brusati, e i Ghibellini, guidati dai feroci Tornielli; i
Cavallazzi, la terza grande famiglia cittadina, si detreggiavano tra le due
parti. E' comunque certo che tali nobili casate si fronteggiassero soprattutto
per interessi particolari, legati fondamentalmente al dominio del territorio,
riparandosi solo per comodità dietro i due partiti; nello stesso modo si
comportavano poi tutti i signorotti della provincia, che avevano in corso
un'infinità di faide e diatribe minori.
Non si sa con
esattezza se i Crusinallo furono sempre legati alla parte "sanguigna"
(i guelfi Brusati) o se anch'essi giocassero d'avvantaggio, passando
disinvoltamente dall'una all'altra delle due fazioni. Le cronache di quei tempi
raccontano però di tal Aymerico da Croxinallo, condottiero di ventura detto
"il Rabbia" per la sua ferocia. Costui nel 1258 fu nominato da
Torello Tornielli, allora esule a Pavia, comandante in capo delle milizie di
parte "rotonda" (ghibelline) per la spedizione di riconquista di
Novara, da cui i Brusati l'avevano cacciato. Il Rabbia conquistò la città -
probabilmente nel 1260 - ed ebbe modo di dare ampia dimostrazione delle sue
sanguinarie tendenze: si era appositamente condotto appresso un carro carico di
"scaiones" (paletti appuntiti) di cui si servì per accecare quanti
avversari ebbero la sfortuna di cadere viv nelle sue mani. I disgraziati
sanguigni non dovettero essere pochi, visto che gli statuti cittadini del 1277
facevano obbigo al podestà di espellere da Novara tutti i ciechi, tranne coloro
divenuti tali per causa di Aymerico.
Nel 1310,
dopo varie vicende di tal tipo, l'imperatore Enrico VII scendeva in Italia e
imponeva la cessazione delle ostilità; il 18 dicembre entrava in Novara
riconducendovi i ghibellini, ancora una volta esuli. Ma la pace durò poco: nel
Giugno successivo i Tornielli scacciarono dalla cità i loro eterni avversari e
questi si rifugiarono nei borghi e nelle campagne, soprattutto sulla riviera
del lago d'Orta e nel feudo dei Crusinallo. Questa volta i ghibellini pensarono
di stroncare definitivamente la resistenza dei Brusati e dei loro alleati e
organizzarono una formidabile spedizione punitiva contro chi li aveva accolti.
Tra il 1311 e il '12 molte furono le località assalite e crudeltà ed eccidi si
sprecarono.
Omegna riuscì
a respingere gli assalitori grazie alle robuste fortificazioni e al rilevante
numero di difensori, Crusinallo fu solo in parte distrutta, ma la furia
devastatrice degli attaccanti si riversò in pieno sul borgo di Cerro.
Nonostante le fortificazioni il luogo venne rapidamente espugnato, l'abitato
incendiato e le sue rovine rase al suolo, la popolazione dispersa o massacrata.
Sulle rovine fumanti venne "sparso il sale": era severamente vietato
ricostruire nel raggio di due miglia, tranne che oltre il Toce, in territorio
di Mergozzo, e oltre la Strona, ove già esistevano i due nuclei antichi di
Gravellona, il Motto e la Baraggia.
I pochi
scampati all'eccidio ripararono effettivamente "sui poggi del
Cerano", nelle "villae" già di loro proprietà sorte attorno alla
chiesetta dedicata a S. Giorgio martire, nei pressi dei villaggi preesistenti
(Arzo, Buglio, Cereda, Ramate): così nacque la Corte di Cerro. Mantennero però
la proprietà dei terreni e i diritti di dominio al piano, tanto che Gravellona
dipese da loro ancora per lungo tempo.
Alcuni altri
superstiti si rifugiarono invece sulla sponda lombarda del Verbano, fondandovi
il paese di Cerro, ora frazione di Laveno.
LE
TRADIZIONI DELLA SETTIMANA SANTA
La Settimana
Santa dovrebbe essere tutt'altro che una festa, ma a Montebuglio le cose funzionano
diversamente. A metà della messa del giovedi la campana a morto annuncia
l'inizio della Sacra Agonia, da allora tacerà per due giorni; ma finita la
funzione chi darà il segnale dell'Ave Maria? E domani, chi chiamerà i fedeli?
Ma i ragazzi, naturalmente!
E allora via,
con timblècch e chinchër e quant'altro si presti a far chiasso, per una buona
mezz'ora e per tutti i vicoli. Questa sera e le prossime due, la celebrazione
della Passione si trasforma come d'incanto in una festa di primavera, dal sapore
piuttosto pagano.
E d'altronde,
non era detta processione dei giudei
quella che il pomeriggio di Venerdi Santo svolgevano gli adolescenti di Casale,
andando a piantare una piccola croce nei prati di Mauleia, presso l'attuale
Getsemani, e godendosi poi una merenda all'aperto?
A Casale
invece, un'apposito apparecchio, la tich
e tach, una tavola portante alcune pesanti maniglie metalliche, veniva
agitato nella cella campanaria, così che il suono raggiungesse tutto il paese.
Chinchër: raganella; sorta di scatoletta in legno che, fatta
ruotare attorno a un ingranaggio pure di legno fissato a un perno con
impugnatura, produce un tipico rumore raspante.
Timblècä: tavoletta in legno con impugnatura nella parte
inferiore e un martelletto oscillante su quella superiore; il rapido movimento
del polso manda il martelletto a battere alternativamente sui due lati,
producendo un ticchettio penetrante. In senso lato viene definita timblècä una persona che usa parlare a
raffica.
CANTAR
MAGGIO
Il rito del
maggio come adorazione della natura risvegliata, è una tradizione arcaiaca che
si perde nella notte dei tempi. Era un ringraziamento per essere usciti
dall'inverno e insieme un modo per propiziarsi gli dei, affinchè la terra desse
buoni frutti.
Anche nel
Cusio, come un po' dovunque, il rito era anticamente presente in tutte le sue
forme tipiche: l'offerta di rami e di fiori, il furto e l'erezione dell'albero
(simbolo dello spirito della vegetazione) e la danza intorno ad esso,
l'elezione della regina del maggio (una fanciulla nubile che simboleggiava la
fecondità della natura in risveglio), la serenata notturna.
Quest'ultima
forma sopravvive a Casale dove, nella notte fra il 30 aprile e il 1° maggio, un
gruppo di uomini attraversa il paese addormentato e canta, sulla falsariga di
un motivo musicale fisso, alcune strofe, parte delle quali sono pure fisse e
altre variabili e improvvisate. Si inizia con il riverire i padroni di casa, li
si prende in giro per il loro lavoro o i loro difetti e si finisce per imporre
di pagare il pegno per il canto, solitamente con vino o generi alimentari. Il läntigher - che viene chiesto in tono
satirico se proprio non si vuole dare loro nulla - è nell'antico dialetto
casalese un ciottolo bianco, della forma e dimensione di un uovo, che viene
messo nel nido per insegnare alle giovani pollastre dove deporre le uova.
Strofe di ringraziamento o di maledizione vengono eseguite per ultime, secondo
l'esito della sosta.
La prima
strofa è eseguita da un solista, tenore o baritono, che ha il compito di
svegliare l'interessato (nella versione proposta un ipotetico sciur Pidrin); le altre si cantano in
coro, intercalandovi il ritornello.
L'è chi masc!
Maggio
fiorente
fior d'ogni
tempo,
fior
dell'estate
e tüte done
inemurà. O bèlo vengo masc!
Sumän gnüi
dal Sass Länscin par riverî
'ncal 'l sciur Pidrin. |
Sumän gnüi
da'n Pra Madonä par riverî
'nca la sö donä. |
Gnirà mai
'na bèlä està finché masc
särà cäntà. |
Sciur Pidrin
chë'l vardä giù che
altrimenti an movum pù. |
Scërchì miä
da fâ tänt l'örch, suma bè
ch'ji mäzzà 'l pörch! |
Purtè forä
quatär öuv, ses, o
sètt, o vott, o nouv. |
Se'l ghi
propi nutä nutä, mändè fô lä donä biutä. |
E së'l ghi propi
vèr vèr, dènn almenu
'l läntighèr. |
STROFE DI RINGRAZIAMENTO (FISSE) A si propi
bravä gent, fumä i
nösti cumpliment. |
V'augürümä
buna nöcc finché 'l
disnâ sarà miä cöcc. |
STROFE DI MALEDIZIONE (FISSE) Tanti s-cai
in-t-a cul mür tanti
brocch in-t-al vöst cul. |
Tänti piod
in sü cul tëcc gnesän giü
süi vösti urëcc. |
ECCO MAGGIO.: Ecco maggio / maggio fiorente / fior d'ogni tempo / fior dell'estate / e (fior di) tutte le donne innamorate. / Viene il bel maggio! / Siamo venuti dal Sasso Lanscin / per riverire anche il signor Pidrin. / Siamo venuti dal Prato Madonna / per riverire anche sua moglie. / Non ci sarà una bella estate, / se non viene cantato il maggio. / Si affacci, signmor Pietro / altrimenti non ce ne andiamo. / Cercate di non fare lo gnorri, / sappiamo che avete ucciso il maiale. / Dateci quattro uova, / sei, o sette, o otto, o nove. / se non avete proprio neinte / fate uscire la moglie svestita. / E se proprio non avete nulla, / dateci almeno il läntigher. / Siete prorio brava gente, / vi facciamo i complimenti. / Vi auguriamo buona notte / finchè il desinare sarà cotto (in questa casa). / Tante pietre ci sono in quel muro, / tanti chiodi (si possano piantare) nel vostro posteriore. / Quante piode vi sono su quel tetto, / (altrettante) vi cadessero sulle orecchie.
LÄ LÜNÄ DÄ
BÜI
'Na bèlä serä
d'istà cüi dä Büi j evän li chë ciciäravän penä sü pai s-cälitt däl circul, quänd
j hän vist gni sü lä lünä, propi 'l tund, dä dré däl Mutärón. Lä smiavä propi
pundà la e 'n quaivün l'ha scumënciâ dî: "Mätai, värdè! La lünä l'è sül
Mërguzzöl... Numä tolä?
"Tolä?" disän i èuti "Pär fan
què? 'T vëgnät bälurd o cušä?"
"Pär tacalä sü 'n t al circul, pënsè
che bel!"
"Oh già, të 'l ghè räšón; än faress
ciar däl nöcc"
"Numä", 'l vušä un aut "ti
tou sü 'l sciurón, ti 'n scalëtt, vièuti 'na quai cordä e ti düi o tri
rämpitt!"
E 'nsì j in pärtî äd cursä e viä ch'j in
nècc fin sü là 'n sciümä, ma quänd ch'in bëgn rüvai, qua vurì mai, s'in
nicursgüi che la lünä l'evä bèli bëgn pä l'ariä e chë 'gh rüvavän miä cun cul
scälët chë 'l ghevän dré; j hän cäscià lä covä in mezz i gämb e j in turnai
indré, ma për cunsulas ä s'in fërmai ä bevä 'na votä a Gärnäról, e 'n autä 'n
Brüghèr.
Cüi dä Mërgözz, grèm cume 'l tösich, quänd
ch'j in gnüi savê tüt lä bügâ hän mitù 'na lünä 'd cärtón sü pä 'n arbul dä cüi
bei gröss e i nösti amiš, che uramai gh'evän lä mäniä, j in rämpigai fin sü 'n
sciümä pär na tô 'nca culä.
Lä storiä l'è naciä 'n turn - i solit
lënguasc!.. - e cüi dä Büi j in rëstèi "cüi 'd lä lünä", ma
l'impurtänt l'è che i prüm chë 'l gh'hän pruvà j in stècc lur, miä i mëricägn.
E pöi, chi 'l sa. L'è miä pö dicc che la lünä chë 'l ghè 'n t al circul dä Büi
siä culä verä e l'autä, 'n t äl ciel, siä culä 'd cärtón, mësä la pär miä dâ
tänt in l'öcc, quänd a lä fin j han pudü truvâ 'n scälëtt lungh ä sè.
Cüi dä Büi äl sän e i èuti vorän bè rängiaš,
che tänt ä n'in mi ropp chë 'l gh'intërèsän ä lur...
I montebugliesi, vedendo sorgere la luna dietro il Mottarone (il cui nome antico era Mergozzolo) credono di poterla toccare e partono con la gerla per andarla a prendere. I mergozzesi giocano loro una scherzo, piazzando una luna di cartone sopra un alto castagno.
Ma chissà che alla fine, a forza di provarci, non ci siano davvero riusciti?
Come in molti
altri casi la leggenda ha diverse varianti, familiari o addirittura personali,
caso tipico della cultura trasmessa per via orale; in alcune di queste il
tentativo di prendersi l'astro avviene a Quaggione (Quasgiugn), per altri al Cardello (in Cäldèr) o sulla cresta del Cerano (Tri Göb). Dovendo scegliere, il curatore di questi testi ha
preferito riportare la versione udita sin da bambino dai propri nonni: non glie
ne vogliate!..
FANTASMI E
NO - 1
ËL PASSÓN
L'uomo dal passo pesante
Il barba (zio) Sctevän, che abitava ad Arzo, sentiva durante certe buie notti
d'inverno strani rumori nella strada prospiciente casa sua: dei passi lenti e
pesanti, come se qualcuno camminasse calzando grossi scarponi ferrati e
portando un greve peso sulle spalle, ma scrutando dalla finestra non si
scorgeva passare nessuno. Era uno spirito e il barba l'aveva soprannominato Passón.
Piuttosto
preoccupato, il buon Stefano, uomo devoto e timorato di Dio, chiese aiuto al
parroco e questi gli consigliò di uscire senza timore nella via e chiedere
apertamente al fantasma cosa lo tormentasse; in base alla risposta si sarebbe
studiato poi il modo di "confinarlo".
Il piano
venne messo in atto e il Passón cessò
finalmente il suo tormentato peregrinare. Barba
Sctevän non volle mai confidere ad alcuno chi realmente fosse stato e a
quale prezzo avesse infine ritrovato la pace.
MÄGÓN
La Mägón era
una bottegaia, probabilmente proprietaria di uno di quei negozietti di paese
dove si vende un po' di tutto. Gli affari però non prosperavano e la donna, già
sparagnina di natura, prese a truffare i clienti con l'aiuto di una bilancia
truccata.
Anche per lei
la punizione venne dopo la morte: il suo spirito dannato vagava nottetempo tra
gli acquitrini del Puzzarach e, non avendo
neppure diritto a dimorare nel camposanto, durante il giorno si nascondeva in
un pozzo, al Cäntón.
Destino
simile toccò a un ex cuciniere dell'esercito regio, uso ad appropriarsi del
formaggio destinato al rancio della truppa: i tetti di Casale videro per notti
e notti il fantasma vagare senza meta, lamentandosi e trasportando le pesanti
forme di furmacc dä grätâ (grana).
ÄL FURN D'LÄ
CUSC
L'antro della strega
La Cusc era
una donna selvatica, con il corpo completamente coperto di peli, che abitava
con il suo piccolo in un antro sotto Pra Mauleia - presso il Getsemani - che i
Casalesi avevano denominato äl furn d'lä
Cusc. Aveva fama di strega e di essere eterna, ma si mostrava raramente ai
comuni mortali.
Un brutto
giorno però, attirata dal canto delle massaie che lavavano i panni nelle acque
dell'Uriasciöl (rio Mauleia), si mise
a spiarle dai cespugli della riva e, scorto un neonato lasciato dalla madre a
riposare sotto un albero, lo rapì, affascinata dal suo candore, lasciando al
suo posto il prorio, brutto e peloso come lei.
La donna
sconsolata, dopo vane e affannose ricerche, si portò a casa il bimbo scambiato,
ma non riusciva a trovare il coraggio di allattare quella specie di
mostriciattolo e questi piangeva a dirotto e tanto forte da farsi udire anche
dalla propria madre che intanto, nell'antro nacosto, tentava a sua volta invano
di consolare il piccolo rapito.
Il giorno
seguente la madre casalese si vide comparire davanti la Cusc che, porgendole il figlioletto, pronunciò con voce gutturale
le uniche parole che mai le siano state udite: "Tëgn, tëgn äl tö biänchin, damm, damm äl me plusin"* E
ripresasi il proprio piccolo si dileguò veloce tra gli alberi.
* Tienti il
tuo piccolo candido e ridammi il mio peloso.
FANTASMI E
NO - 2
ÄL NUDAR CHË
'L RULAVA I BOCC
Il
notaio che faceva rotolare i sassi
Viveva un
tempo in Casale un notaio di non specchiata onestà che un giorno si recò a
Mergozzo per concludere la vendita di alcuni terreni di proprietà comunale. A quel tempo non esisteva ancora il
ponte sul Toce, a Gravellona (fu costruito nel 1888) e il fiume veniva
attraversato su barche o chiatte; il nostro notaio mentre veniva traghettato
per il ritorno, lascio destramente scivolare in acqua la sua finanziera. "Lä me märsinä!.. I sod däl cümün!"*
gridava con ben simulata disperazione, ma il ricavato della vendita era al
sicuro nel taschino del panciotto. Invano i barcaioli si tuffarono nell'acqua
fredda: la giacca, sapientemente appesantita, si era rapidamente inabissata ed
era stata trascinata via dalla corrente.
Gli
amministratori comunali dovettero darsi pace per la disgrazia e il furbo notaio
si tenne i soldi, ma non ritenendo prudente investirli immediatamente, pensò
bene di murarli in casa proria, nascosti dentro una dujä**. Pare che non riuscisse mai a utilizzare quel denaro e che
il contenitore sia stato ritrovato intatto quando la casa venne demolita, molti
anni dopo. Ma la giustizia divina non dimentica e la punizione fu terribile: lo
spirito del notaio venne condannato a vagare senza pace tra i gerbidi del
Pianello dove manifestava la sua furia facendo rotolare grossi sassi adosso ai
passanti.
I buoni
casalesi, spaventati dal fracasso e dal pericolo imminente, ricorsero prima al
parroco e poi ai vescovo e questi, ponderata la situazione, consegnò al
sacrestano una lettera sigillata con l'ordine di portarla nella zona
frequentata dallo spettro, deporla a terra e tornare velocemente sui propri
passi, senza mai voltarsi, qualunque cosa sentisse. Il pover'uomo quasi morì di
spavento nel compiere la sua missione; per qualche istante il fracasso prodotto
dai massi che franavano fu terribile, poi tornò la pace. Il fantasma era stato
"confinato" e da quel giorno non riapparve mai più.
* La mia giacca!... Il denaro del comune!
** Recipiente in coccio, con coperchio, utilizzato per conservare gli alimenti, specie il salame d'oca (sälämin 'd la dujä) sotto grasso
I FULITT
I
folletti
Il mezz* del latte si è rovesciato inopinatamente?
Il camino tira male e vi riempie la casa di fumo? Le vacche si agitano e
rumoreggiano nella stalla in piena notte? Non è sfortuna, o cattiva
manutenzione o effetto del freddo, no: sono i folletti, quegli esserini eterei,
di solito invisibli, dispettosissimi, che si divertono a tormentare gli umani
con i loro tiri mancini. Nascondono gli oggetti di casa, mungono le capre e ne
gettano il latte nel pozzo, sparpagliano il mucchio del letame davanti
all'ingresso di casa, fanno fuggire i maiali dallo stabbio...
Ma a volte,
nella loro imprevedibilità, sanno anche rendersi utili: alla Maria hanno
spazzato e rassettato tutta la cucina, alla Gina hanno vangato l'orto in una
sola notte, alla Clara hanno fatto ritrovare tre marenghi d'oro che credeva d'aver
perduto. Si dice che il Nino sia riuscito a catturarne uno, nel prato
dell'alpe, una mattina di ottobre, e che questi, a mo' di riscatto, gli abbia
indicato dove trovare un'antico tesoro sepolto.
Mah!...
* Boccale metallico della capienza di mezzo litro.
PROVERBI E
TRADIZIONI
- L'acquä quätagnä, l'è culä ch'lä
bagnä La piogerella bagna
più di un acquazzone
- I donn e i frasän, guà läsai induä
nasän Le donne e i frassini
è bene lasciarli dove nascono
- Lä donä? Ch'lä piasä, ch'lä tasä e
ch'lä stagä casä...La moglie? Che piaccia, taccia e se ne resti in
casa
- E l'omm?.. Quänd l'è penä püsè bel che'n cän, l'è sè!.. E il marito? E' sufficiente che sia appena più bello
di
un cane
LÄ VAL D'I
CINCH
La
valle dei Cinque
Erano in
cinque, cinque fratelli, cinque omoni grandi, grossi e spavaldi. Boscaioli,
cacciatori, forse contrabbandieri di sale, occasionalmente, con il vicino principato,
per arrotondare il magro bilancio.
Sguardo
franco, passo gagliardo, ogni sentiero del Cerano era come casa loro; tutti li
conoscevano e li rispettavano perchè, nonostante quel loro aspetto brigantesco,
erano miti e gentili con chiunque.
Ma un brutto
giorno l'esercito imperiale ritenne di non potersi più privare dei loro servigi
e li chiamò alle armi, tutti in una volta. Loro però non se la sentirono di
andare a combattere contro i francesi, non per pusillanimità, ma per non
lasciare sola la vecchia madre che non avrebbe saputo come campare. Non si
presentarono al reclutamento e quando, qualche giorno più tardi, la pattuglia
dei gendarmi venne da Omegna per arrestarli, si diedero alla macchia.
Li
inseguirono naturalmente, per prati e orti e boschi, ma i cinque bravi si
andarono a rifugiare nella profonda forra del rio Gaggiolo, a monte di Arzo, e
appostati alla sua imboccatura attesero i croati con gli schioppi spianati,
bloccandoli col loro tiro preciso. A lungo in paese si udirono rimbombare le
fucilate, via via sempre più rade, ma nessuno fu più rivisto comparire.
Pare che
siano ancora la, a difendere il burrone che prese il loro nome, la Valle dei
Cinque. Se vi aggirate da quelle parti al crepuscolo, con l'animo disposto a
credere anche le cose più improbabili, forse riuscirete a scorgere una vampata
all'interno dell'orrido e se saprete guardare nella giusta direzione
individuerete forse anche il pennacchio del kaporalmeister che, da dietro un
masso, ancora fa la posta ai suoi disertori.
Nota: la leggenda è ricordata solo nei suoi tratti essenziali e con sfumature diverse secondo chi la riferisce. La versione riportata, pur nel rispetto della tradizione, è stata ampiamente romanzata al fine di renderla più leggibile; in particolare è del tutto arbitraria l'ambientazione nel periodo in cui Casale, con tutti i feudi borromei, faceva parte del ducato di Milano e quindi dell'impero austriaco (prima metà del XVIII secolo) e il principato sabaudo si estendeva sino alla Valsesia e all'alta Val Strona.
LÄ RÄNDULINÄ
E 'L SCIAT
La rondine e il rospo
Quänd i omän 'gh j evän incurä miä i bescti
gh'evan l'abitüdin dä truvas lä serä 'n sü l'Ariel pär fâ quatär pärol prümä dä
nâ 'n t u lecc. Gh'evä 'l cän, äl gat, lä crucch cun t i picitt, äl fäšän, lä
lisèrtä e tucc i èuti; äl sciat, chë'l navä däsjn däsiott, äl rüvavä sempär pär
ültim e lä rändulinä, chë'nveci la filavä viä cume 'n lošän, agh ghignavä dré e
'gh diševä dä naa scundäš d'lä vërgognä.
Finchè 'na votä 'l sciat gh'è täcà 'l fut e
gh'ha dicc: "Cià, se propi ti crëdät dä vèsa 'nsì 'n gämbä, fumä lä cursä.
Pärtisum lä mätin bunurä, penä chë vëgn sü'l sul e numä fin Piänä Rävazz; äl
prüm chë 'l rüvä l'ha vinciü e l'aut äs fa piü vëgä 'l Ariell fin l'an chë
vëgn."
"Mi fa lä cursä 'nsëmä dä ti? Gh'ho
'ncû dä sentän?" gh'ha rispundü la Rändulinä "Ma d'urä chë ti ti
rüvät Piänä Brügall mi j ho facc äl gir däl mund, aut che l'alp äd Togn!"
"Bón, së 't sè 'nsì 'n gämbä ti gh'aurè
nutä puriä dä pèrdä. Ti ghë stè o no?"
"Sicür che ghë sto! Dumän 'd
mätin..."
E 'nsì lä mätin bunurä, cun tücc i auti
besti ch'j evän livai sü prëst për vëgä l'aveniment, jn pärtij. La rändulinä
l'è naciä driciä fin äl Pianón, pöi l'è turnà 'ndré a vëgä qua sücëdevä e l'ha
truvà 'l sciat che'l gnevä 'n sü, prövä la Tur, un bašel dopu l'aut, sënzä
prèsä.
"Vardäl li 'l lucch!" gh'ha vušà
giü "Ma 'nduu ti crëdät dä nâ cun cüi sautitt?"
"Ghignä, ghignä ti, ma vigarumä chi
ghignärà pär ültim" gh'ha rispundü 'l sciat, e l'ha tirà 'n nëgn.
"Oh car Signur!" l'ha pënsà
l'üscel "l'ha dä vé picà lä zücä sü 'n bución. Bëgn, cià chë posi 'n
mument". S'è pundà sü 'na rama d'unisciä e s'è 'ndurmëntà.
Dä li penä s'è disvigià, gh'è gnü 'n ment
d'lä cursä e l'è naciä 'vanti vëgä: äl sciat l'evä gnänc rüvà Pra 'd Dón.
"Cust chi 'nsì 'l rüvä sü gnäncä pär
Nädal" l'ha pënsà 'ncû, e sicume l'evä giamò misdì s'è mësä dré disnâ e
dopu s'è 'ndurmëntà turnä, incä përchè la serä 'n prümä l'evä naciä 'nturn fa
fèstä 'nsëmä i söi amiš.
L'ha drumì 'n grän tocch, pöi l'è naciä bevä
'n t al cröš däl Gasc e tütt d'un culp s'è nicursgiuä che 'l sul l'evä li për
nâ giü dä dré d'in Quagiugn. Ilurä l'è pärtiä 'd cursä e 'n t un mument l'è
rüvà Piänä Rävazz, ma quänd bëgn l'è staciä la, l'hä truvà 'l sciat sül pusgiöl
dä l'alp chë la spiciavä.
Ä l'è gnuä räbià, lä rändulinä, ma gh'è
stacc nutä dä fâ: gh'è tucà faš pü vëgä pär un grän tocch. E l'è stacc unsì che
i rändulin j hän ciapà sü'l lècch dä nà viä 'd l'autünn e turnà 'ndré mä dumà
la prümaverä dopu.
Il rospo, stufo degli sberleffi della rondine, la sfida a una gara di corsa. L'uccello deride l'altro animale, lento e impacciato, e prende la sfida con leggerezza, perde tempo e finisce per farsi battere.
Così deve impegnarsi a scomparire fino all'anno successivo e da questo deriva l'abitudine delle rondini alla migrazione.
Le località citate nel testo sono dislocate
lungo il sentiero che da Arzo sale agli alpi Togno per proseguire poi verso
Minarola e il Cerano.
ÄL LÜU E LÄ
VULP
Il
lupo e la volpe
'Na nöcc la vulp l'è naciä lä Rüšä girundâ penä
'n mezz i cäšèr e 'n t äl päsâ višin un cäsott däl bür l'ha sëntü 'n bón udurin
äd grëmä chë'l gnevä fô dä dent li. Ijlurä äl ga girà 'nturn finché l'ha truà
un finëströl cun la fërâ, ma l'evä unsì stilä ch'l'è staciä bunä dä na dent
instess, l'ha truvà 'l bugiunin äd lä grëmä e s'è mësä dré päciâ. Ogni tänt
però lä pruvavä së'gh pasavä incû däl böcc e quänd l'ha vist ch'lä gnevä tröpp
grosä l'è turnà säutâ fô.
In t ar cul päsavä dä li 'l lüu chë 'l g'ha
ciämà qua l'è ch'l'evä dré fâ e lei g'ha cüntà sü d'lä grämä e däl finëströl;
pöi l'è naciä viä e l'ha piäntà li cume 'n bëcch sül mërcà. Cul lüu, pudì bè mä
cäpî, s'è 'nfrizzà dent päl cäšott e alé fiöi, l'ha vuià 'l väsel; pöi, propi
verä ch'l'è fürb cume la covä 'd lä vulp, quänd l'ha facc pär gnî fô 'gh päsavä
pü 'd lä fërâ. A lä fin 'd la ferä l'ha facc e l'ha dicc fin quänd l'älpè s'è
disvigià.
"Pütanä d'un ašän" l'ha dicc quänd
l'ha truà 'l lüu in t äl cäšott "ät lä suni mi dèss lä müšicä!" E
l'ha därnà 'd zacunai.
Lä vulp, ch'l'evä vist tütt, l'è naciä
burlätas in mezz i curniöi fin quänd l'è gnuä tütä smägià 'd russ e pöi s'è
svärdäcâ 'n mezz lä strâ. Dä li 'n mument rüvä 'l lüu, tütt spatascent, e 'gh
ciamä qua lä fa li 'nsì.
"Fa mä taš... L'älpè m'ha vistä 'ncä
mi, li 'n t äl pra e më'n n'ha dacc 'nä cargä... oh, pourä mi, sun gnäncä pü
bunä dä stâ 'n pei. Fam un piäšè, ti chë t sè 'ncû bón dä cäminâ: toväm sü
spalä e minän fin ca mëiä, chë podä armänch murî 'n paš."
E l'aut, crës-ciänón, toulä spalä e portlä
fin dent in Bägnugn. 'Ntänt chë navän lä vulp lä cäntavä: "Tärlin, tärlän,
äl mälavi 'l portä 'l sän..." e quänd äl lüu ägh ciämavä qua l'è ch'l'evä
dre dî, 'gh rispundevä: "Ah, nutä, nutä, sevi dre dî i mei
uraziugn..."
Però, a füriä dä dagh, äl lüu l'ha cäpì
l'äntifunä e për faglä pägâ ä culä vigliacä l'ha faciä vulâ giü pä 'n välón e
l'ha mändà 'nfrizzas in t un buscon äd välänä.
E pöi, ciamärì vièuti?
E pöi gh'è päsà 'n grän car d'oli d'ulivä e
lä storiä l'è bèli che furniä!
La volpe entra in una casera attraverso un finestrino e mangia della panna fresca, avendo però cura di non ingrassare tanto da non riuscire più ad uscire dal pertugio. Il lupo entra asua volta, si abboffa e non riesce più a uscire; l'alpigiano lo sorprende e lo carica di legnate. La volpe si rotola nei frutti di corniolo sporcandosi di rosso e poi, fingendosi agonizzante, chiede al lupo di trasportarla sulle spalle fino alla propria tana, ma questi, accortosi dell'inganno, la precipita in un burrone.
Una variante di questa fiaba si trova nella grande raccolta tedesca "Le Fiabe del Focolare", dei fratelli Grimm.
BÜRGATIN
Burgatin
Un di lä mamä gh'ha dicc äl Bürgatin:
"Scuä lä ca e së ti trovät cüi tri sôd ch'j ho përdü ier ti podät
tëgnäi."
Ijlurä lüi s'è mëss ä dré scuâ sü dä pär tütt
e l'ha truà i tri ghèi sutt lä cärdenzä; datu chë 'gh piäševän i figh l'ha
pënsà bëgn dä nâ ton un cävägnin. Quänd lä mamä l'ha vist cun t i figh äl gh'ha
dicc: "Provä piäntan vün, che migari vëgn sü lä piäntä e ti podät fan 'nä
pèll."
Lüi l'è nacc in l'ört piäntan vün e 'l di
ädré l'ha truà 'nä grän piäntä, giämò cärgà 'd figh; tütt cuntent l'è rämpigà
sü fin in sciümä e s'ë mëss dré päciâ. In t är cul pasä dä li 'l Mago, äl sent
fruzzâ sü pär cul figh e 'l diš: "Qua l'è chë süced mai?" Pöi, quänd l'ha
vist ch'l'evä 'l Bürgatin, gh'ha dicc: "Portäm giü 'n figh, chë'l gh'ho
voiä dä tästâ s'i jn bugn" E 'l mat: "No, no, che dopu ti'm
ciapät!"
"Ma no,
figürät së vori purtat viä". Mä si, mä no, mä dai... Ä lä fin äl Bürgatin
l'è gnü giü purtagh äl figh e lüi, in prèsä 'n prèsä, ciapäl, infrizzäl dent pä
'n sacch e portäl viä.
Quänd l'è rüvà ca sovä, äl Mago l'ha vist che
'l mat l'evä francä magär e ijlurä l'ha särà sü 'n t äl purscil pär fal gni
grass; tücc i di ägh purtavä dä mängiâ e 'l fiöl äl mängiavä sü tütt e 'l
lasavä indré poch e vèr aut.
Dopu 'n quai di 'l Mago l'è nacc la e 'l
gh'ha dicc: "Bürgatin, mëtt fô 'n digh, chë vori sentä së t'sè gnü penä
tund" e lüi l'ha mëss forä 'nä brocä. L'örch, chë 'l ghë s-ciäravä miä
tänt pulit, l'ha tucà pär sentä së l'evä gnü grass, mä l'ha dicc: "No, no,
ti sè 'ncurä tröpp magär, podi miä mängiat unsì. Sta li 'ncû 'n quai di e pö
vigarumä."
Dä li 'na smänä l'è turnà vëgäl e quänd
gh'ha dicc dä cäsciâ fô 'l digh, äl fiöl äl gh'ha dacc lä covä d'un ratt.
"Oh car Signur" l'ha vusà 'l bis-ción. E l'è
nacc 'd cursä in lä sö fumnä digh: "Tacä sü 'l pariöl sü lä chëinä e fa nâ
cul mat, ch'äl vëgn tütt pluš".
Lä donä l'ha
pärigià tutt e pö l'ha tirà fô 'l Bürgatin d'in t äl stabiëtt, l'ha minà in
cüšinä e 'l gh'ha dicc: "Sgobät giü e büfä 'n t äl fögh, sutä 'l
pariöl."
"Ma mi
sun nutä bón, cum l'è chë 's fa?.. Chë'm musträ lei, pär piäšé."
Lä Magä, ijlurä, s'è snugià giü dä t nëgn
däl cämin pär büfâ e 'l fiöl gh'ha piäntà 'nä grän pisciâ 'n t äl cül e l'ha
traciä dent in lä brascä. Pö l'ha ciäpà l'üss e l'è curs ca sovä, in la sö
mamä.
E 'l Mago, quänd l'è gnü ca, äl pudeva 'ncä
mängiâ lä sö donä tutä brüšentä.
Il bambino Burgatin trova tre soldi, ci compra dei fichi, ne pianta uno e l'albero si sviluppa magicamente in una sola notte.
Mentre B. raccogli i frutti, il Mago (orco) lo prega di offrirgliene uno e con quel pretesto lo cattura per cibarsene, ma ritenendolo troppo magro, lo rinchiude all'ingrasso nel suo porcile. Per controllare i progressi usa tastargli un dito, avendo problemi di vista, ma il furbo bambino lo inganna, prima con un chiodo e poi con la coda di un topo.
Il M. decide di mangiarselo comunque e incarica la moglie di cucinarlo. Costei porta il ragazzo in cucina e gli chiede di attizzare il fuoco del camino soffiandoci sopra, ma lui fa lo gnorri; la donna allora prende il suo posto per mostrargli il modo di agire e B. approfitta della posizione da lei assunta per spingerla tra le fiamme e prendere poi la fuga.
Si tratta di una fiaba molto diffusa in tutta Europa e particolarmente in Italia, con varianti di minimo conto.